L’eclissi dell’ontologia, radici filosofiche

Intervista al Magnifico Rettore dell'’Università Cattolica, prof. Adriano Bausola, a cura di Francesco Bertoldi.

Pubblicato in in Libertà di educazione, n.4 [1997-98], pp. 13-5.

Il clima filosofico attuale permane diffidente se non ostile nei confronti dell’ontologia. Quali sono secondo Lei le radici e le ragioni di questa situazione.

Bausola: C'è oggi una diffusa resistenza al discorso metafisico, le ragioni di questo non sono nate oggi ma nel corso di alcuni secoli. Per me fondamentale è la critica empiristica ed in particolare il pensiero di David Hume che ha dato inizio all'adozione in tempi moderni di quello che è stato chiamato il “rasoio di Ockham” cioè l’affermazione per cui molte delle tesi metafisiche non hanno riscontro empirico, soltanto ciò che si basa sul dato di esperienza è significativo ed è valido.

Questa è la prima radice, la seconda è rappresentata dal dualismo moderno, sostenuto da molti pensatori, tra il conoscere e l'essere. Nell’Ottocento, con la corrente positivistica, si è cercato di attuare una ricomprensione storica del ciclo del sapere umano, proponendo tre tappe: quella più antica viene definita “teologica”, a questa succede quella “filosofica o metafisica”, in ultimo viene la tappa “positiva o scientifica”. È nata così la rivalità tra la metafisica e la scienza, opposizione fondata sul carattere stesso della scienza, che vede confermate nei successivi risultati pratici molte sue tesi e affermazioni, mentre la metafisica non le può verificare, almeno non in questo mondo. Nel dibattito filosofico oggi si cita ancora comunemente anche Kant, il quale aveva sostenuto questa impossibilità di fare discorsi metafisici, anche se, spesso, lo si cita senza averlo effettivamente letto. La corrente più diffusa per alcuni decenni del ‘900 è anche il neopositivismo, oggi meno presente, il quale, semplificando, riprende la tesi secondo cui una proposizione è sensata solo se si può ricondurre a osservazioni di esperienza. Famose sono formule come quella di Carnap secondo il quale la metafisica sarebbe soltanto l'espressione di sentimenti e perciò il metafisico sarebbe un “cattivo” artista perché vuole usare mezzi che vorrebbero essere logici ma che, valendo solo per l’arte, sono impropri in filosofia.

Secondo Lei c’è qualche colpa da imputare al pensiero metafisico e parallelamente nel suo substrato culturale?

Credo che ci sia stata la tendenza nel mondo teologico, più in quello protestante che in ambito cattolico, di affermare il principio della “sola fides”. Si tratta di una radice storica che risale ai tempi della Riforma, quando per una motivazione teologica si è persa la fiducia nella ragione umana: con il peccato originale l’uomo sarebbe radicalmente corrotto e quindi la ragione, come diceva Lutero, sarebbe “la prostituta del diavolo”. La metafisica come sapere razionale parteciperebbe così del peccato originale non in quanto metafisica, ma perché sarebbe un tentativo di decidere con la sola ragione ciò che, secondo questa concezione, solo la fede può dire. Tutto questo la tradizione magisteriale cattolica non lo ha mai ammesso: basti pensare al Concilio Vaticano I.

Si constata, tuttavia, nel nostro secolo, una diffusione progressiva di questo atteggiamento protestante anche in alcuni teologi cattolici che, influenzati dalla sempre maggiore diffusione dell’ateismo, teorico, o pratico, hanno concepito la cosiddetta “teologia della morte di Dio” (qualche decennio fa) nella quale la ragione viene riconosciuta incapace di affermarLo esistente, per cui tutto deve essere affrontato con la sola fede.

La fede viene così privata del supporto della ragione. In Italia è stato un fenomeno poco diffuso allora, mentre oggi si assiste ad una capillare presenza di questa mentalità tra i cattolici.

Se è in crisi il sapere sull'essere, secondo Lei, ciò non dipende dal fatto che si è preteso di andare in maniera puramente speculativa, secondo il modello ellenico, verso l’essere, prescindendo dalla componente affettiva?

Questo è il contenuto della critica moderna e contemporanea che ha visto nell’esistenzialismo, nella diffusione delle interpretazioni antropologie e psicologiche il contraltare dell’impostazione del pensiero scolastico. Pensiero, quest’ultimo, che nel medioevo aveva ripreso quello greco e che, secondo la critica contemporanea, si perderebbe in elaborazioni sofisticate, sottili e che trova la soddisfazione della propria “libido” nel gusto della ragione che va avanti da sola, dimenticandosi le ragioni per le quali è iniziata la ricerca stessa. In realtà, la ragione umana è ragionevole che si muova in quanto si pone delle domande che investono le sorti dell’uomo, il senso della sua vita e il suo destino.

Tutto questo interessa in quanto ci sia una partecipazione dell’uomo a queste domande. Io credo che questo sia inevitabile in tutti, perché ci si può distrarre andando incontro alla figura "huius mundi", alla legge del mondo, ma poi il momento del confronto viene e le decisioni occorre prenderle.

Kant nella "Critica della ragion pura" nega la metafisica, ma nella "Critica alla ragion pratica" riconosce che non basta la ragione pura, la quale direbbe che non si può conoscere il noumeno, perciò neanche Dio, neanche il mondo. In realtà egli fa decidere la ragione pratica, ragione che si interroga sulla felicità, riscoprendo Dio e l’immortalità dell’anima.

Probabilmente lo spettacolo dato per secoli, del perdersi nelle sottigliezze della ragione, come nelle trattatistiche dei testi scolastici usati ancora in molte università ecclesiastiche fino a qualche decennio fa, non facendo i conti, da una parte, con la realtà che era meglio studiare con le scienze, e dall’altra con le ragioni che avevano mosso la ricerca stessa, ha nuociuto alla credibilità dell’ontologia. L'amore per la riflessione filosofica non può essere fine a se stesso, ma deve essere in funzione delle domande di senso dell’uomo.

A livello scolastico il fatto di insistere sul metodo non denota una trascuratezza rispetto alla conoscenza della realtà, dell'essere?

La riflessione sul metodo dovrebbe sempre seguire e non essere il punto di partenza rispetto alla prassi, perché esso si elabora, si ricava dalla prassi, quella teorica, del pensiero. Non è ragionevole, quindi, acuire questo momento metodologico. Molte volte questo accade non a caso, ma perché, puntando l’attenzione sul metodo, si riduce tutto a un’unica forma di sapere; alla logica, all’espistemologia, la riflessione sulle altre scienze diventa riflessione della filosofia su se stessa, in una sorta di circolo vizioso.

Perché accade questo? Perché si è persa la fiducia o anche solo la disponibilità a riconoscere che il pensiero può rivelarci la realtà.

Considero più difficile da affrontare, tornando alle critiche storiche alla metafisica, quella più diffusa, quella humiana che non quella kantiana, in quanto quest'ultima è legata ad un periodo storico, quello del dualismo gnoseologico che oggi è stato superato. Kant non è più seguito per questi aspetti, non appartiene al tessuto vivente del pensiero di oggi, anche se si continua a riprenderlo nominalmente, o su temi particolari.